RIFLESSIONI PSICOLOGICHE
Le parole che aiutano
(di Sandra Borghi, Psicologa Psicoterapeuta)
Qualche giorno fa sono stata contattata da una insegnante di scuola media per un colloquio urgente.
Il motivo della richiesta riguardava il tema scritto in classe di un suo allievo che chiameremo Alberto, di 11 anni. In questo testo che aveva la traccia di un “diario”, il bambino aveva scritto alcune affermazioni altamente emozionali che hanno allarmato l’insegnante e che l’hanno portata a contattarmi per avere indicazioni su come muoversi. “ Ho paura che la mamma muoia ed io non riesco a salvarla”, “il matrimonio è una cosa schifosa, io non mi sposerò mai”, “io non dovevo nascere, forse era meglio”, “il papà ora ha un’altra famiglia”… Queste le frasi di Alberto in quel testo, che aveva come indicazione il ricordo di una giornata speciale nella sua vita. Succede spesso che in un testo o in un disegno, anche non necessariamente pertinenti, il bambino possa proiettare ed esprimere le sue emozioni e i vissuti più profondi; questo materiale (scritto o grafico), generato spontaneamente, è quindi spesso preziosissimo per la conoscenza del suo mondo emozionale e della suo benessere complessivo. Approfondendo il colloquio con le insegnanti, scopro che Alberto sta vivendo da più di un anno la separazione conflittuale dei genitori, separazione dolorosa e difficile , caratterizzata da strappi familiari e da battaglie legali, che vede i due genitori contrapposti e in forte attrito tra loro. Alberto sta vivendo tutto questo in prima persona , con i suoi giovanissimi 11 anni, con compiti evolutivi tipici della pubertà e quindi già altamente complessi, con un ruolo importante in questo scenario: essere il figlio. La separazione dei genitori è sempre un evento luttuoso, in quanto implica l’elaborazione psicologica di una doppia perdita : la perdita del concetto di famiglia unita e di coppia genitoriale che “si ama” e che rimarrà insieme per sempre. E’ quindi un grande travaglio di dolore che deve affrontare il figlio e questo accade sempre, anche per le coppie che si separano in modo disteso e civile. Se la separazione avviene in modo consensuale e collaborativo, se le condizioni che circondano il minore sono tutelanti e protettive, se viene garantita la relazione affettiva e continuativa con tutti i membri della famiglia, il figlio riesce con il tempo ad elaborare l’evento critico e a proseguire nelle proprie tappe di crescita e di sviluppo. Quando però la separazione è conflittuale le cose vanno diversamente. Nella separazione conflittuale il figlio vive e respira direttamente una atmosfera di tensione e di “pericolo”: sente i genitori discutere o litigare o al contrario genitori che non si parlano, a volte neppure si salutano; è immerso in informazioni circa avvocati e alimenti da versare, spesso comunicati con rabbia ed esasperazione; assiste a scene di pianto, di dispiacere, di collera, così come può ascoltare commenti offensivi e denigratori di un genitore verso l’altro genitore; talora può essere coinvolto in veri e propri atti di ira in cui i due coniugi arrivano anche ad azioni aggressive tra di loro; spesso può trovarsi all’interno di faide familiari (circa i due nuclei d’origine) per cui può subire distacchi dai nonni, liti familiari o spostamenti geografici . In poche parole, in una separazione conflittuale , che perdura nel tempo, il figlio vive una condizione di alta sofferenza e di stress che può inevitabilmente influenzare il suo equilibrio psicologico e la qualità complessiva della sua vita. Quindi se la separazione genitoriale è un lutto che comunque può essere elaborato e superabile, quando c’è un alto grado di conflitto e di “violenza” relazionale tra i due genitori, la separazione può diventare un evento dannoso e corrosivo per lo sviluppo complessivo del figlio, in particolare in età evolutiva. Come potete intuire non si tratta quindi della separazione in sé per sè, ma di come i due genitori si separano. Se recuperiamo le affermazioni di Alberto possiamo quindi intuire diversi vissuti emotivi che emergono da quello scritto: preoccupazione eccessiva e disperata per la madre, senso di colpa (sono stato io a provocare tutto ciò?), timore di essere abbandonato, forte delusione interna per la distruzione di un’idea di matrimonio e di coppia in cui probabilmente credeva e a cui si era affidato. Ma come si arriva a tutto ciò? Nella mia esperienza di terapista di coppia e della famiglia, osservo spesso alcune modalità disfunzionali con cui si può manifestare una separazione conflittuale. Sono modalità frequenti e spesso inconsapevoli, arrivano a permeare tutti gli scambi relazionali e inevitabilmente coinvolgono direttamente il minore, con tutto il carico emotivo che abbiamo descritto.
Non tutte le separazioni conflittuali ovviamente si presentano con questo alto grado di problematicità, ma molte dinamiche descritte sono purtroppo ricorrenti e caratterizzano una lunga durata temporale, che inizia di solito molto prima della firma legale della separazione e perdura negli anni successivi, quando si vive già da tempo in case separate. Nonostante i consigli legali, le consultazioni specialistiche , i consigli di amici e parenti, queste coppie tendono a perseverare nelle loro modalità patologiche, tendendo ad attuare una sorta di “sindrome da indennizzo”, utilizzando tutto ciò che può essere realizzato, compresa la strumentalizzazione dei figli, per l’illusione della vittoria. I figli rischiano di essere quindi i grandi dimenticati di questa faida coniugale, per cui è molto probabile che possano sviluppare sintomi e segnali di disagio, oltre che ripercussioni emotive ed affettive nella loro vita adulta. Nel caso di bambini, alcuni studi rilevano , nell’anno successivo alla separazione, ridotta frequenza del sorriso, calo del rendimento scolastico, disturbi del ritmo sonno-veglia, riduzione della socializzazione, aumento dell’aggressività; circa le ripercussioni in età adulta, sono frequenti compromissioni a livello di un sviluppo armonico della personalità e grosse difficoltà a costruire relazioni intime. Che fare quindi? Non sottovalutare che cosa sta succedendo nella vita di un minore quando siamo a conoscenza che sta vivendo una situazione così difficile, proprio come ha fatto l’insegnante di Alberto. Facciamo in modo di rendere “visibile” e intelleggibile il loro vissuto, proprio perché sono figli portatori di una storia di dimenticanze, di trascuratezze, di scarsa protezione. Circa i genitori, l’indicazione elettiva è un percorso rigoroso di mediazione familiare, in cui il focus dell’intervento è la riabilitazione del loro compito genitoriale e parallelamente condurli a reimparare ad “amare” in modo sano e tutelante il loro figlio conteso. |
Curiosità cliniche per i non addetti ai lavori
(di Sandra Borghi, Psicologa Psicoterapeuta)
(di Sandra Borghi, Psicologa Psicoterapeuta)
Ci sembra sempre molto difficile pensare che un bambino di pochi anni possa avere una sofferenza psicologica. Il mondo della prima infanzia (che ricordiamolo è quel periodo che copre i primi 6 anni di vita) ci appare da sempre come magico e spensierato, in cui il bambino è un piccolo essere in sviluppo che vive in un territorio di giochi, esplorazioni , scoperte e bisogni primari . Forse per una sorta di autodifesa e per spirito di protezione verso i nostri piccoli, a volte ci rifiutiamo di pensare che questo possa accadere: è altamente dolorosa e dissonante la consapevolezza che anche un bambino possa stare male emotivamente ; allo stesso modo altrettanto grande è il senso di disorientamento e di impotenza nell’adulto (il genitore in primis) che non trova spesso gli strumenti e le strategie per capire ed aiutare il bambino sofferente.
Il bambino piccolo non comunica il suo disagio a parole, ma attraverso il suo comportamento, per cui i segnali del malessere debbono essere ricercati in ciò che è osservabile: come dorme? Come si nutre? Come gioca? Come esplora l’esterno? Come comunica? Come si relaziona? Come gestisce le frustrazioni? Come cerca i genitori? Come sta crescendo in termini di tappe di sviluppo? Queste sono solo alcune aree in cui i sintomi di un disagio possono evidenziarsi ed è per questo che a volte occorre la consulenza di uno psicologo infantile. In questo scritto il nostro focus è proprio su ciò che avviene all’interno della stanza tra uno psicologo infantile e il suo piccolo paziente. Sappiamo molto di quello che succede nella psicoterapia con gli adulti, in cui le parole sono fondamentali e i colloqui sono gli strumenti elettivi per conoscere e curare. Sappiamo che esiste un setting ben preciso per gli adulti, caratterizzato da sedute regolari, poltroncine o lettino, test psicologici e modalità principalmente verbali di comunicazione. Con un bambino piccolo lo scenario cambia radicalmente ed è per questo che la figura dello psicologo infantile si trova a dover costruire uno spazio di lavoro e di relazione completamente diverso. Tutto ciò presuppone per il curante una formazione specifica e una specializzazione in psicologia dell’età evolutiva, in quanto se i dolori umani possono essere simili e avere spesso assonanze comuni, l’età del piccolo paziente richiede tecniche e modalità assolutamente ad hoc. A questo proposito abbiamo posto alle nostre Psicoterapeute Infantili di Progetto Crescere alcune domande, focalizzate a conoscere meglio il setting di questo particolare incontro clinico. Possiamo partire dalla stanza, ricca di colori, giochi e materiali. Ci sono seggioline e tavolini colorati a misura di bambino, ci sono tappeti, pelushe, palle, costruzioni e colori per disegnare. Ma questo “spazio” non è solo uno spazio fisico, esso è prima di tutto uno spazio psicologico per il bambino, sia soggettivo che oggettivo: come direbbe Winnicott, è un spazio transizionale. Ci dice la dr.ssa Enrica Giaroli: “… E’ importante ricevere il bambino in contesti accoglienti e stimolanti, che dovranno essere definiti sulla base delle caratteristiche del piccolo paziente e del suo sistema familiare. Questo per andare incontro il più possibile alle modalità di esprimersi del bambino, personalizzando uno spazio attorno a lui che possa essergli “amico”. Si dovrà quindi predisporre un ambiente e del materiale di gioco adatti alla sua età, quali ad esempio colori per disegnare, pasta da modellare, libri, angoli per il gioco libero o per il gioco simbolico. Allo stesso tempo è importante limitare la presenza eccessiva di oggetti che potrebbero essere distraenti e non favorire quindi la nascita di un alleanza terapeutica..” All’interno della seduta con il bambino, lo psicologo gioca. Gioca con lui, di fronte a lui, attraverso lui. Il gioco è “la parola” con cui avviene la psicoterapia infantile, ricca di simboli, di significati e di possibilità riparative. Si può giocare con le bambole, con la casetta di legno, con personaggi immaginari, con la fattoria degli animali e con qualsiasi altro materiale, anche non ludico. La dr.ssa M. Teresa Faccin descrive così l’importanza del gioco in psicoterapia: “….Attraverso il gioco, il bambino, mostra il suo mondo interno comunicando ciò che non può o non riesce esprimere a parole oppure ciò di cui non è consapevole, rivela il suo mondo psichico: gli affetti, le emozioni, le fantasie e le angosce che lo abitano. Il terapeuta acquisisce così informazioni preziose sullo sviluppo del bambino e sul benessere psichico e relazionale. Tuttavia, Il gioco non è soltanto uno strumento di conoscenza del piccolo, ma rappresenta uno strumento molto potente per l’integrazione di affetti, di elaborazione dei traumi, di trasformazione, di ricerca e sviluppo del Sé. Sono funzioni che spingono questa attività oltre l’aspetto puramente ludico conosciuto, sono funzioni terapeutiche importanti che si attivano solo quando un bambino che gioca può incontrare un terapeuta che sa giocare. Perché come ci ricorda Winnicott «La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta». Il bambino a differenza dell’adulto usa molto più il corpo per comunicare e questo accade anche nella seduta. Il bambino sta in silenzio, si muove, si agita, si irrigidisce, gira per la stanza, tocca gli oggetti, cerca la porta, ride, piange, distrugge un gioco, lo ricostruisce, si incanta con lo sguardo… una miriade di azioni e di movimenti accompagnano il bambino nel suo porsi al mondo. Ecco le parole della dr.ssa Erica Lorenzini: “…Il corpo di un bambino in psicoterapia comunica attraverso le non-parole, i gesti, i movimenti, i silenzi, le pause: il non verbale è un linguaggio potente e universale. Attraverso movimenti silenziosi si incontrano i non sentiti e i non parlati. I bambino in psicoterapia prima ancora di parlare comunica attraverso il corpo, che si fa strumento della sua narrazione: l’azione spesso racconta la vita interna ed emotiva, senza farsi parola. E’ come se le azioni e i movimenti si esprimessero attraverso il linguaggio del corpo e raccontassero, a chi sa ascoltare, il vero sottofondo emotivo del bambino, non sovrastato o invaso dalle parole: è puro, diretto, semplice e arriva nel profondo….”. Anche il disegno rappresenta un canale di comunicazione privilegiato con il bambino e viene largamente utilizzato in psicoterapia. Scarabocchi, omini, pitture con colori, disegni della mamma, disegni del papà, disegni liberi, autoritratti, uso dei colori, osservazione del tratto, gestione grafica dello spazio… il disegno infantile diventa una tecnica conoscitiva ed espressiva straordinaria che il terapeuta deve saper proporre ed interpretare. La dr.ssa Marcella Morelli ci dice infatti che:“….Il disegno libero, all’interno di un percorso psicoterapeutico, può diventare uno strumento privilegiato di conoscenza e di dialogo con il bambino, perché attraverso questo canale espressivo lui rappresenta il suo mondo interno, narra la sua storia, la sua visione del mondo e rivela al terapeuta tratti importanti della sua personalità. Il bambino che disegna si mette in gioco utilizzando la sua capacità di elaborazione immaginativa e le sue “creazioni” diventano così messaggi da ascoltare, preziose occasioni per nutrire il dialogo terapeutico e per dare voce agli stati d’animo…”. Come possiamo osservare , tutti questi elementi : spazio, gioco, corpo , disegno, sono nel contempo sia strumenti conoscitivi ed espressivi sia strumenti terapeutici, ovvero è attraverso di essi che avviene “la cura” e la possibilità trasformativa del mondo emotivo del bambino. Ciò che rende possibile tutto ciò è la costruzione della relazione emotiva tra i due protagonisti (psicologo e piccolo paziente), relazione che richiede tempo , fiducia, pazienza, creatività. Lo psicologo infatti deve essere capace di recuperare ed utilizzare il proprio registro infantile per poter accogliere il linguaggio del bambino e mettersi in contatto con lui, capacità complessa e non per tutti, che richiede professionalmente una profonda motivazione e una lunga formazione specifica. |
Verso una pandemia psicologica? Ansia, insonnia e depressione, nuovi (ma non tanto) compagni di viaggio
(di Sandra Borghi, Psicologa Psicoterapeuta)
(di Sandra Borghi, Psicologa Psicoterapeuta)
Ore 9 di un giorno qualunque di lavoro, in un ottobre di un anno importante, quello del Coronavirus.
La ragazza 17 enne seduta di fronte a me è la prima volta che arriva ad una consultazione psicologica e le prime cose che dice sono relative al fatto che non riesce più ad andare a scuola, “ha l’ansia”, le viene mal di stomaco e ha il terrore di non riuscire ad andare in bagno quando è in classe. Dice che è sempre stata “emotiva” ma mai come ora. Ore 16 dello stesso giorno, la signora sulla poltroncina è una paziente anziana che seguo da diversi mesi. Ha subito un importante intervento chirurgico al cuore e dopo la quarantena ha sviluppato un profondo malessere, paure irrazionali, segue tutti i numeri dei contagi, dorme molto male e spesso è sopraffatta da pensieri cupi e depressivi. Alle 19 incontro invece F., un commerciante di 45 anni arrivato in terapia per una crisi coniugale e ora gran parte dei suoi colloqui sono incentrati sul suo lavoro. Si definisce stressato, preoccupato, in ansia per il futuro. Ha perso guadagno e continuità e quella sicurezza e stabilità professionale che è sempre stata l’ impalcatura della sua vita. Tre situazioni diverse, età differenti e storie differenti. Eppure in ciascuna possiamo trovare un comune denominatore: la paura. La paura è un’emozione primaria, appartiene a ciascuno di noi e ogni soggetto la può declinare con modalità personali , più o meno evidenti e più o meno razionali. Talvolta si trasforma in ansia, in attacchi di panico, in depressione, in disturbi psicosomatici, in fobie, in ritiro sociale ecc ; in ogni caso la base emotiva di ciascuna di queste forme sintomatiche è la paura di qualcosa di minaccioso e di non controllabile. Verso la fine di aprile di quest’anno il Consiglio Nazionale dell’ Ordine degli Psicologi ha fornito dati decisamente significativi in questo senso: il 63% degli italiani ha sviluppato disturbi psicologici che rientrano pienamente nei quadri clinici sopra descritti. In più dalle interviste effettuate emerge un grado elevato di stress emotivo: il 43% denuncia un “grado massimo di stress”, mentre il 63% si descrive come “abbastanza “o “molto stressato”. In ogni caso, ciò che sembra lasciarci questa epidemia è un conto molto salato sul piano del benessere psicologico. Siamo quindi diventati più fragili? Stiamo cercando di adattarci come possiamo alla situazione esterna così difficile? Stiamo esprimendo disagi e malesseri che erano comunque latenti? Forse non c’è una risposta univoca e assoluta e tutte queste ipotesi potrebbero calzare ed essere connesse tra di loro. Quella che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo può essere considerata a tutti gli effetti una esperienza traumatica. Il trauma psicologico, implica la frattura di un tessuto psichico prima intatto e che poi si frantuma; nel nostro immaginario è qualcosa di grave di complesso , non sempre comprensibile e che coincide quindi con una interruzione dolorosa e imprevedibile dello scorrere regolare degli eventi. Più la rottura è incomprensibile e incontrollabile, più è distruttiva, con la conseguente comparsa di sintomi. Quello che accomuna gli eventi traumatici , di qualsiasi natura essi siano (epidemia, guerra, terremoto, lutto improvviso ecc) è che sono in grado di scardinare le normali capacità dell’individuo di adattarsi alla vita. Sconvolgono equilibri, abitudini, schemi di vita, sicurezze: ciò che osserviamo è che il trauma in questo caso è collettivo e coinvolge un numero considerevole di individui e di famiglie, per cui parliamo non solo di benessere psicologico individuale, ma del benessere psicologico sociale e di comunità, entrambi in questo momento altamente minati e sofferenti. Nei tre casi clinici che ho portato come esempio, ciò che emerge quindi è una profonda ansia per “quello che succederà o che potrebbe succedere”, quindi i tre pazienti, con modalità e bisogni diversi, ci stanno segnalando un forte disagio nel loro vivere. Non crediamo che siano tre casi isolati, al contrario noi operatori del settore ci stiamo accorgendo nella nostra casistica come queste problematiche emotive siano in significativo aumento e richiedono risposte “di cura” adeguate e puntuali. Questo malessere non deve quindi essere sottovalutato né misconosciuto e neppure ricondotto a timori infondati da ridimensionare con “la ragione”; occorre invece prestare ascolto e attenzione , offrire una possibilità di sostegno, di comprensione e di elaborazione, sia con l’accesso a strade di auto specialistico, sia con l’attivazione di reti amicali e familiari, sia con servizi e politiche concrete del territorio. Il malessere psichico diventa malessere sociale e una società malata nel suo tessuto connettivo è una società che si impoverisce, involve, regredisce in tutti i campi. Nel mese della Psicologia, non possiamo quindi che auspicare che si possa davvero arrivare a garantire il diritto alla salute psicologica, che come quella fisica dovrebbe essere un diritto inalienabile per la persona. La salute psicologica , non ancora completamente riconosciuta, ricordiamolo è spesso il frutto di una grande opera di prevenzione, per cui prima di arrivare a “curare” i sintomi, occorre con molto coraggio costruire strade e buone prassi per far sì che lo sviluppo armonico della persona possa esplicarsi nel migliore dei modi possibile. |
I contributi in tempo di lockdown
Da tanto tempo il gruppo di psicologi e psicoterapeuti sentiva il desiderio di narrare e condividere pensieri, emozioni, parole e, forse oggi, abbiamo trovato lo slancio e l’esigenza per farlo.
Oggi perché stiamo affrontando un periodo del tutto inedito della nostra vita. La repentina interruzione della quotidianità, le limitazioni alla libertà individuale, la separazione dagli affetti, l’incertezze sulla salute e futuro, il dolore…la nostra esistenza è stata profondamente perturbata.
Quello che ci sta accadendo tocca in profondità le corde del nostro cuore e genera una profonda spaccatura tra un prima e un dopo. Noi psicologi, però, sappiamo bene quante opportunità si possono celare nelle “crisi”. Per questo abbiamo pensato di creare questa pagina: per crescere assieme, per essere vicini ai nostri utenti, ai nostri colleghi, ad ogni persona.
Come psicoterapeuti desideriamo condividere alcune riflessioni affinché questo tempo possa essere per tutti noi spazio di ascolto e di pensiero, spazio di condivisione e di relazione, spazio di elaborazione e ri-significazione, uno spazio e un tempo generativo.
Oggi perché stiamo affrontando un periodo del tutto inedito della nostra vita. La repentina interruzione della quotidianità, le limitazioni alla libertà individuale, la separazione dagli affetti, l’incertezze sulla salute e futuro, il dolore…la nostra esistenza è stata profondamente perturbata.
Quello che ci sta accadendo tocca in profondità le corde del nostro cuore e genera una profonda spaccatura tra un prima e un dopo. Noi psicologi, però, sappiamo bene quante opportunità si possono celare nelle “crisi”. Per questo abbiamo pensato di creare questa pagina: per crescere assieme, per essere vicini ai nostri utenti, ai nostri colleghi, ad ogni persona.
Come psicoterapeuti desideriamo condividere alcune riflessioni affinché questo tempo possa essere per tutti noi spazio di ascolto e di pensiero, spazio di condivisione e di relazione, spazio di elaborazione e ri-significazione, uno spazio e un tempo generativo.
Il Terapeuta senza stanza
Riflessioni sulla prassi terapeutica ai tempi del Covid 19 (di Francesca Bertetti, Psicologa Psicoterapeuta)
"Le misure di distanziamento e la quarantena previste per far fronte all'emergenza sanitaria impattano fortemente sul lavoro terapeutico, costringendo i pazienti a modificare abitudini di presa in carico consolidate da tempo. Se questo è vero per chi chiede l'aiuto psicologico, lo è anche per chi questo aiuto lo dà. L'utilizzo di Skype e delle varie modalità per la terapia a distanza costringono il terapeuta a riflettere su come gestire al meglio questi strumenti. Nella prassi terapeutica penso, infatti, debba esserci sempre a monte una riflessione sul proprio operato.
Conosco colleghi che sono scettici rispetto a una così grande variazione delle modalità terapeutiche, soprattutto quando il lavoro svolto presuppone l'attuazione di tecniche specifiche. Ritengo che tali perplessità siano legittime, ma che fa parte del nostro lavoro anche la plasticità e la possibilità di cambiamento per quanto faticosa. Penso sia nostro dovere garantire, a chi vuole, almeno una continuità di lavoro che, anche se diverso, che permetta la possibilità di un ascolto e una continuità di relazione. Nelle ultime settimane mi sono quindi trovata a incontrare alcuni pazienti via Skype e la prima riflessione che mi è venuta è che mi trovavo a fare terapia senza più una stanza condivisa, un luogo protetto e sempre uguale. Si è aperta perciò una riflessione sul concetto di Setting nell'accezione classica psicoanalitica: “area spazio-temporale vincolata da regole che determinano ruoli e funzioni“ (U. Galimberti, Dizionario di Psicologia). Di solito le sedute hanno un orario e un luogo sempre uguale, una ritualità di gesti e comportamenti che fanno della terapia un momento svincolato da tutto il resto. Mi sono quindi chiesta come poter fronteggiare tutti i cambiamenti nel setting che siamo costretti a vivere cercando ciò che invece era rimasto immutato. Ciò che non varia, credo, sono le due persone, il terapeuta e il paziente, insieme alla storia che hanno costruito. La videochiamata anche se a distanza è comunque un incontro tra due o più persone e forse mantenere la possibilità di incontro in questo periodo può sollevare e tranquillizzare. Mi chiedo allora se in questi tempi di sospensioni e distanze ciò che può vicariare la stanza del terapeuta non sia proprio la relazione che si è costruita con quella persona, quella relazione che tanto più viene interiorizzata, tanto più permette al paziente una sempre maggiore capacità di autonomia e autosostentamento. Questo in attesa di poter rincontrare i nostri pazienti nella stanza reale della terapia con la possibilità di ritrovarli un po' più capaci di portare la nostra relazione dentro di loro". |
Le PAROLE del CORPO
(di Erica Lorenzini, Psicologa Psicoterapeuta)
"Connessione, computer, tablet, cellulare, whatsapp, skype, meet, zoom, fb, instagram, classroom, gsuite, mail, allegati, circolari, decreti, numeri di vittime, contagi, guariti, notizie che girano e rigirano, catene che vanno e tornano, sms, bip dei cellulari, sirene di autoambulanze, notifiche in ogni istante di una giornata, chiusi in casa. I nostri cinque sensi sono sollecitati da 1000 attivazioni, bombardati da ogni tipo di attività “virtuale”.
Le nostre mani allenate a scrivere sempre più rapidamente, digitano; noi chattiamo, seduti alla propria scrivania oppure su poltrone, divani, tappeti. E siamo tutti con la testa china sulle nostre protesi tecnologiche, fingendo di credere che queste connessioni siano la normalità nella nostra quotidianità, che se rimarremo connessi tutto sarà più facile e“normale”. Ma stiamo parlando con un PC, quel che vediamo è solo l’immagine di una persona… e quel collo ricurvo può essere dolorante. Queste non sono altro che: “Parole, parole, parole, parole parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi..….” Cantava Mina agli inizi degli anni 1970. Le sue parole ci raccontavano di una tipica storia d’amore tra due innamorati che si parlano al telefono. Nulla di più attuale, se oggi non ci fosse anche un contesto, una cornice d’emergenza. Da psicologa e psicoterapeuta mi sono formata e sono cresciuta professionalmente ad essere un supporto, un sostegno; simbolicamente una mano che si avvicina e accompagna il paziente alla scoperta, al superamento di una fase critica della vita. Oggi però, sento che la mano devo darla anche a me stessa. Siamo tutti immersi in questo momento critico e ci sentiamo a tratti vulnerabili, deboli, “con un peso sullo stomaco”, senza appetito oppure con il desiderio di mangiare spesso e tanto. Fatichiamo a respirare, non perché il virus ci ha colpiti ma perché paure e sensazioni negative si stagliano nell’orizzonte e fanno parte di questa nuova quotidianità: siamo fragili, tutti. Tutti si parlano, si videochiamano, si vedono credendo così di essere “Social” e vicini. Ma davanti non c’è una persona con un corpo, che occupa uno spazio reale, ma c’è un monitor, una presenza virtuale. Allora mi chiedo: in tutta questa esperienza come sta veramente il nostro CORPO? Chi sta ascoltando il proprio corpo, chi parla con lui, chi si occupa di mani, piedi, schiena, testa, pancia e gambe? Nel linguaggio della psicoterapia espressiva, della Danzamovimentoterapia, ogni corpo occupa uno spazio, ogni corpo ha una propria chinesfera (uno spazio reale che ci delimita e ci differenzia dagli altri) che si muove con ritmi, tempi individuali e reali. Il nostro corpo ha dei “compagni di viaggio” che sono le coppie opposte di movimenti e direzioni come avanti-dietro, alto-basso, destra- sinistra, aprire e chiudere. E tutto può essere visto all’interno di una coreografia pensata con intenzione, respirazione e consapevolezza del nostro movimento, oppure una danza mossa da pulsioni interne e improvvisazione. Tutto questo oggi, nel presente dettato dall’emergenza, è come se fosse sospeso, in pausa. E’come se il nostro corpo fosse “offline”, senza rete; come se le connessioni corporee dalla testa ai piedi, da sinistra a destra, dall’alto al basso funzionassero come una rete di internet che a volte va e a volte ritorna, un movimento poco fluido e disarmonico, spezzato e intermittente. Un corpo inerme che subisce ed è violato nella propria libertà di espressione, nella propria quotidianità e nelle proprie abitudine. Questo tempo lascerà una traccia, un segno dentro, a cui dovremo prestare attenzione; sarà quindi importane occuparci anche di questa nostra intimità personale, della capacità di sentirsi in contatto con sé stessi e con gli altri, in modalità REALE, CORPOREO. Questa virtualità potrebbe degenerare e generare in tutti noi sentimenti di vuoto e difficoltà a godersi il tempo, lo spazio e il corpo reale. Stiamo tutti ascoltando parole, ma siamo sordi quando è il corpo che vuole parlarci. Teniamo a mente, quando tutti torneremo alle nostre abitudini sociali, quotidiane, scolastiche e lavorative che il nostro corpo avrà una cicatrice che dovremo imparare ad “ascoltare”, perché un segno indelebile di questo isolamento con cui dovremo inevitabilmente parlare. “Parole, parole, parole” da poter cantare e….finalmente danzare!" Percorso breve al tempo del COVID-19 (anche online)
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La relazione con i figli...senza farsi sopraffare dall'ansia
(di Stefania Musci, Psicologa specializzanda in Psicoterapia)
Nel momento di emergenza che stiamo vivendo, in cui passiamo tutti i giorni straordinariamente a casa, può capitare che i bambini mostrino comportamenti infantili, come se fossero più piccoli, che cerchino spesso la presenza del genitore e lo vogliano fisicamente sempre vicino.
Può capitare in questo periodo ci sia tensione nei rapporti genitore-figli. Ci arrivano telefonate di genitori preoccupati per i propri bimbi, che si chiedono se stanno sbagliando il loro approccio perché faticano a districarsi tra il tempo e la disponibilità maggiore richiesta dai figli e il lavoro a distanza che devono comunque continuare a svolgere e che richiede concentrazione. In questa situazione fuori dall’ordinario, di incertezza, può capitare che i bambini “regrediscano”, sembrino piccoli e bisognosi di aiuto. A volte chiedono l’assistenza continua della mamma nei compiti o in attività per le quali avevano raggiunto piena autonomia. Non dobbiamo preoccuparci, questo comportamento sembra avere una valenza rassicurante utile a tranquillizzare. È come se, in un momento di difficoltà, si attivasse il sistema di attaccamento e attraverso questa richiesta di vicinanza fisica, essi mettano in atto nel concreto la ricerca di rifornimento affettivo. È verosimile che le circostanze attuali amplifichino delle peculiarità già presenti, ma la situazione in cui ci si ritrova può essere quella in cui il bambino è come bloccato e il genitore si spazientisce. In più, se il bambino non riesce ad esprimere le ragioni dei sui comportamenti come richiederebbe il genitore, il rischio che si incorre è che la tensione e preoccupazioni che ha dentro, magari inconsapevoli e a cui non sa dare un nome, interferiscano nelle relazioni familiari. È importante a questo proposito avere un atteggiamento di accoglienza, dimostrare ai propri figli che si può parlare di quanto sta accadendo, ma soprattutto è normale sentirsi disorientati o preoccupati. Mettersi in una posizione di ascolto e di apertura al dialogo a volte è sufficiente per tranquillizzarli, in modo che non sentano più così pressante il bisogno di stare fisicamente vicino alla mamma o al papà. Per facilitare la relazione:
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La coppia che si abbraccia, un nuovo erotismo
Riflessioni di una Psicoterapeuta della Coppia (di Sandra Borghi, Psicologa Psicoterapeuta)
"In questo periodo così difficile e straordinario, la coppia si trova a vivere, come non mai, in un contesto sia fisico che relazionale, di pieno contatto. Si condividono molto di più gli spazi, si pranza insieme, si sta insieme la sera, si lavora a casa, ci si trova ad essere gli unici interlocutori a volte con cui parlare.
Leggo spesso articoli e news in cui ciò che più sembra preoccupare è la possibile crisi della coppia: troppa vicinanza può far scompensare degli equilibri, può far riemergere conflitti irrisolti, può far aumentare la distanza e l’insofferenza. Tutto ciò è molto probabile per quelle coppie che hanno nel loro tessuto relazionale nodi irrisolti e disfunzionalità. Per queste coppie il tema dell’ intimità (intesa non in termini sessuali, ma proprio come profonda e intima vicinanza emotiva ) è un nucleo critico, per cui il contatto stretto e prolungato può essere un fattore “bomba” destinato prima poi a scoppiare, mettendo a repentaglio la sussistenza stessa della coppia. Ciò invece di cui vorrei parlare oggi è la possibilità che la coppia riesca a ritrovare canali di vicinanza diversi, che forse da tempo aveva dimenticato. Sono state le coppie stesse a suggerirmelo in questi giorni (coppie che sto seguendo in terapia) attraverso le loro parole e i resoconti delle loro giornate. “Abbiamo riscoperto il piacere di cucinare insieme “, “parliamo di più” , “ascoltiamo il tg e scopriamo di desiderare un abbraccio che ci conforta” , “ci teniamo per mano, non succedeva da tempo”, “abbiamo recuperato vecchie foto”, “dormiamo spesso abbracciati”, “litighiamo meno per quelle solite stupidaggini”, “ci siamo messi a suonare la chitarra insieme”, “giochiamo a Monopoli come quando eravamo ragazzi”… Questi sono alcuni esempi di nuove vicinanze, senz’altro favorite dallo stato di forte apprensione per questa terribile epidemia, ma che testimoniano la riscoperta del registro affettivo come uno dei canali privilegiati da coltivare nella relazione di coppia, non solo in questo periodo di difficoltà. Queste coppie non hanno magicamente risolto tutte le loro problematiche, ma mi hanno comunicato che stanno facendo un grosso lavoro spontaneo e creativo di bonifica. Nella normale quotidianità, la comunicazione affettiva infatti è spesso subordinata ad altre modalità di interazione della coppia, come ad esempio quella sessuale o a quella più pragmatica, legata all’ organizzazione della giornata , alla gestione dei figli, alla condivisione delle uscite e degli svaghi. Ma cosa significa comunicazione affettiva? Non parliamo di romanticismo, di passionalità o del lessico amoroso così caro a Roland Barthes. Comunicare affettivamente significa riuscire a sentirsi vicini, sintonizzati, sentirsi accanto. Significa riuscire a darsi calore, appoggio, conforto. Significa riuscire ad ascoltarsi e comprendersi. Significa mettersi nei panni dell’altro e per un attimo dimenticarsi di sé. Significa riscoprire la propria storia, le proprie memorie , i propri intrecci, il valore del proprio rapporto. A prima vista tutto ciò può sembrare facile o scontato per una coppia che si vuole bene, in realtà come terapeuta della coppia posso assicurare che non è così. La comunicazione è spesso avvitata su dinamiche arrugginite, di scarso dialogo, di lotta di potere, di narcisismi reciproci, di diversità caratteriali che non si armonizzano, di silenzi affettivi a volte incolmabili in cui entrambi i partner si sentono soli e lontani. Non di rado in terapia le coppie ci dicono che c’è trascuratezza e disabitudine nel manifestarsi affetto. La coppia quindi spesso si dimentica del suo valore. L’eros è sempre stato un grosso collante e ora con l’attuale pandemia, dovremmo ipotizzare che l’isolamento possa favorirne il suo esplicarsi. In realtà, le cose sembrano andare diversamente. Il sesso appare sullo sfondo, la coppia si cerca sessualmente in misura minore rispetto a quanto potremmo immaginare. Oltretutto se si fa l’amore , spesso i bisogni più reconditi sono quelli di scambiarsi affetto, calore, vicinanza, sentirsi vivi. L’obiettivo del piacere in senso pienamente libidico, è ridimensionato, come se in quest’epoca di morte e di malattia, il concedersi il piacere apparisse inconsciamente meno prioritario, dissonante, quasi un sacrilegio. Probabilmente agisce in tutto ciò anche la paura e l’incertezza sul futuro, per cui il bisogno di cercare affettivamente l’altro per non cadere nell’angoscia di morte ci fa pensare che entrino in gioco non solo spinte evolutive, ma anche regressive legate alla minaccia di perdita o di vedere dissolte tutte le sicurezze costruite. Anche la coppia può avere paura, non solo il singolo individuo. Ecco allora che il registro affettivo può diventare terapeutico. Se sviluppato in modo consapevole e con reciprocità da entrambi i partner può assumere una grande funzione di sostegno e di scambio. Può diventare una impalcatura della relazione, quei muri portanti su cui la casa della coppia può percepirne appieno la stabilità e il valore. In più, il registro affettivo crea movimento, emozione, gioco, ricordi , energia buona, senso di pienezza: è una ricchezza relazionale che inevitabilmente diventa modello di apprendimento anche per i figli. Approfittiamo di questo isolamento per ri-sperimentarlo: questo è il mio invito e un caloroso augurio a tutte le coppie". |
Un tempo inatteso…per nascere, per nutrire, per prendersi cura dei legami (di Marcella Morelli, Psicologa Psicoterapeuta)
Questo periodo di distanziamento fisico forzato ha dato inizio a un nuovo tempo che non conoscevamo e che in modo più o meno rapido abbiamo iniziato a vivere, inventare e sperimentare. Come psicoterapeuta dell’età evolutiva mi soffermo in questa riflessione sul tema del tempo e del suo possibile uso rispetto alle relazioni, in particolare quelle precoci dei primissimi anni di vita, madre-bambino, madre-padre-bambino. Uno sguardo particolare è dedicato a tutte quelle relazioni genitoriali che sono nate in questi tempi in cui la distanza fisica è la distanza della protezione. Stare a distanza ora si può connotare come la forma più alta di amore.
Come si conciliano le esigenze di protezione attuali con l’esperienza della nascita nella sua unicità e nel suo bisogno più profondo di vicinanza da parte dei genitori? Sappiamo bene quanto il neonato sin dai primissimi attimi di vita possa nutrirsi della presenza, della compartecipazione anche fisica del papà e quanto questo sostenga il suo sviluppo. Occorre ripensare le nascite che avvengono in questo periodo, soffermarsi su quei genitori che nascono ora per la prima volta, insieme al loro bambino, per sentire che per ragioni protettive vengono a mancare alcuni aspetti. Pensiamo a tutti quei papà che devono mettere in atto procedure di distanza-protezione come prima forma del loro amore, che devono adottare misure di sicurezza e partecipare al momento del parto con il supporto della tecnologia e con tempi di condivisione ospedalieri serrati. Una volta rientrati a casa, si può riconquistare la dimensione intima della nascita, dell’unità familiare insieme al papà, e la fusionalità madre-bambino, supportata dalla presenza paterna, può andare ad accendere nel neonato un’attività mentale viva ed appassionata, a sviluppare la base del suo equilibrio fisico e psichico. Dina Vallino scrive “la concentrazione di attenzione del neonato sulla sua “stella polare”, la madre, gli permette di farsi dei punti di riferimento stabili e di conservare memoria e apprendere dall’esperienza”. L’esperienza vissuta da madre-bambino ora è ben diversa da quella a cui una mamma forse si era preparata, a ciò che aveva fantasticato durante i mesi della gravidanza insieme al proprio bambino immaginario: le mamme in questi giorni possono incontrare nuove prepotenti realtà, in cui spesso sono sole durante le visite, il travaglio e a volte anche durante la nascita e le prime giornate in ospedale. Poi quando si torna a casa, le giornate così come si configurano ora, nelle mura domestiche, senza la possibilità del quotidiano che ci appartiene, si possono colorare delle tinte più disparate, possono sembrare a tratti lunghe e interminabili, oppure intime e partecipate e possono divenire occasioni nuove: possibilità di ascolto e sintonizzazione affettiva ed emotiva con i bisogni del neonato; circostanze per unire gli sguardi materni e paterni sul bambino; opportunità per vivere la lentezza, la sospensione temporale caratteristica dei primi mesi di vita del neonato e della mamma. Tanti genitori sono fuori dal tempo dell’organizzazione dei ruoli, degli orari, immersi in un tempo più lento, più vicino alla vita quotidiana del neonato, alla sua corporeità, ai suoi suoni, ai suoi sguardi. Una lentezza che non contraddistingue il ritmo della quotidianità in cui ci siamo abituati a contrarre tempo e spazio per i legami. Nella situazione attuale prendersi cura dell’atmosfera emotiva della famiglia può divenire uno degli ambiti a cui dedicarsi come genitori. L’atmosfera emotiva si manifesta nelle voci, nei movimenti, negli sguardi e nelle tonalità sonore, ha a che fare con il clima, con la meteorologia delle emozioni e con l’ambiente mentale della famiglia. I legami possono occupare la scena e i tempi e gli spazi possono essere dedicati maggiormente a nutrire tali legami. Se parliamo di atmosfera emotiva non possiamo sottovalutare la fatica di questi tempi, le paure, le angosce e i comprensibili vissuti di disorientamento, incertezza che ciascuno di noi può incontrare. Anche i genitori possono vivere maggiori difficoltà emotive senza la presenza di una rete familiare/amicale che possa sostenere, contenere, senza la possibilità di accedere fisicamente a tutti quei servizi che sostengono la maternità e che accompagnano una mamma nel periodo post-parto. Questo richiama l’importanza di riconoscere queste criticità e prendersi cura di tali vissuti, cercando la condivisione, seppure virtuale, il confronto e l’aiuto per gestire insieme questo periodo di distanziamento fisico, ma non affettivo e sociale. I neonati e i bambini nella prima infanzia possiedono canali sensoriali di conoscenza del mondo, attraverso i quali si sintonizzano con la mamma e l’ambiente familiare e apprendono. Questo li rende molto ricettivi alle nostre emozioni, ai nostri stati d’animo, respirano in modo continuo l’atmosfera emotiva. Come genitori questo implica la necessità di prendersi cura delle proprie emozioni, di trovare degli spazi, dei momenti di confronto tra adulti, in cui i piccolissimi di casa non siano inclusi, per proteggerli rispetto ad un’esperienza che per loro è inavvicinabile sul piano emotivo. In particolare, concluderei questa riflessione sottolineando il valore che lo sguardo ha assunto in questi tempi, perché a volte è proprio quello che incontriamo maggiormente se il volto è coperto da una mascherina e perché è diventato il canale elettivo per sentire l’altro, per trattenerne la vicinanza. Il neonato, all’inizio della sua storia, è molto dipendente dallo sguardo della madre, perché nel volto materno si vede riflesso e riceve indietro ciò che la madre gli restituisce di se stesso, e attraverso quello sguardo inizia a costruire la propria identità e la vita di relazione. Prendersi cura significa anche riconoscere i momenti in cui questi sguardi possono essere meno spensierati, meno liberi, meno distesi per cercare attraverso la condivisione, il confronto uno stimolo, una luce che possa ridare luminosità e possa promuovere la crescita. E possa sostenere lo sguardo fiducioso verso il superamento della condizione attuale. |
(di Chiara Sicuriello, Psicologa e Arteterapeuta)
"La maggior parte di noi, da più di un mese, sta vivendo la sua quotidianità in casa, creando una nuova routine e cercando di impiegare il tempo con diverse attività e faccende domestiche, tra una videochiamata e un messaggio. Questa sta diventando la nostra nuova normalità, anche perché, il mondo, dalla nostra finestra, è sempre lo stesso.
La nostra visione della realtà è limitata a ciò che guardiamo fuori o, al massimo, a quello che possiamo vedere a poche centinaia di metri da casa. L’isolamento che stiamo vivendo non ci sta soltanto tenendo lontani dai nostri cari o dai nostri amici ma ci tiene lontani anche dalla realtà in cui il dramma del contagio si sta consumando. Molti stanno sottolineando quanto la situazione attuale non è paragonabile ad una guerra, in quanto, oggi, il nostro, è un nemico invisibile che non altera le nostre confortevoli case squarciandole con le bombe, ma uccide al chiuso degli ospedali e nel chiuso di stanze di terapia intensiva, lontano dagli occhi di tutti noi, noi genitori, figli, compagni, amici, fratelli, colleghi, vicini. E mai come in questa realtà che stiamo vivendo, il detto “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, mi appare insensato e del tutto inadeguato a descrivere quello che stiamo vivendo. Non vedere significa non avere immagini viste davvero, da associare alla miriade di emozioni che ingolfano il nostro mondo interno e che ci aiuterebbero ad elaborarle, significa, quindi, rimanere da soli insieme alla nostra incredibile e sconfinata immaginazione e iniziare un cammino che potrebbe essere alquanto impervio. Come psicoterapeuta e arteterapeuta utilizzo moltissimo le immagini nel mio lavoro e, con esse, aiuto le persone ad evocare le proprie immagini interiori, connesse a ricordi ed emozioni, e a conoscerle meglio, accrescendo la coscienza di sé. Essere coscienti di se stessi significa averne rispetto, vivere secondo la propria natura e convivere con i propri stati d’animo ed emozioni, accogliendoli nella loro complessità fatta di gioia ma anche di dolore. In questo periodo, però, a volte ci sentiamo smarriti, è grande l’incertezza dentro di noi, la paura, la rabbia e la tristezza si alternano a domande senza risposta ed è qui che la nostra immaginazione, spesso inconscia, inizia a lavorare trasportandoci verso confini angoscianti. Oggi abbiamo più tempo da dedicare a noi, più tempo per pensare non essendo nel vortice frenetico degli impegni che il lavoro e la famiglia ci richiedono. In questo “stare” con noi stessi “allargato”, la nostra immaginazione, il nostro inconscio, cerca risposte alle domande angoscianti a cui cerchiamo di non pensare e colma i vuoti lasciati dalle esperienze della realtà non vissute, dalle immagini non viste, e facendoci attaccare, con tutti noi stessi, a quelle poche che ripetutamente scorrono in tv o su internet, e di cui abbiamo disperato bisogno. A volte la realtà immaginata è ben più brutta e paurosa di quella vera e oggi siamo chiamati a fare qualcosa che non c’era mai successo: a vivere isolati dagli altri e dalla realtà che ci circonda e la nostra immaginazione galoppa tra scenari bui e post apocalittici fino al vedere noi stessi e i nostri cari in una stanza d’ospedale. Non possiamo, e non dobbiamo, impedire che questo avvenga seppure vorremmo negarlo, nasconderlo e distrarci. Possiamo, invece, cercare e costruire un dialogo con queste nostre immagini e film interiori, possiamo porci, nei loro confronti, in maniera aperta e comunicativa, andargli incontro in modo del tutto opposto a ciò che questo virus invisibile ci spinge a fare, a chiuderci, isolarci, negare ed evitare. Proviamo coraggiosamente a guardarli in faccia, andiamo a cercarne il significato, a dargli un nome per riuscire a prenderne coscienza e finalmente integrarle in ciò che siamo e accrescendo la conoscenza che abbiamo di noi stessi. Staremo, pian piano, sicuramente meglio perché illuminare le parti buie le rende meno pericolose e molto più gestibili, alla luce del sole le nostre paure e il nostro dolore non scompariranno ma assumeranno un significato che potremmo collocare in un insieme organico che ci darà maggiore sicurezza. Per fare questo lavoro non c’è una formula uguale per tutti ed è qui che emerge la forza e la grande opportunità dell’essere individui unici, ognuno col suo modo personale e speciale di guardarsi dentro ed iniziare il cammino verso la prossima tappa del proprio cambiamento. Da psicoterapeuta espressiva vorrei suggerire dei modi creativi per iniziare questo dialogo con le nostre immagini e film interiori: possiamo disegnare, anche scarabocchiare, oppure schizzare del colore su un foglio, apparentemente senza senso e poi guardarne il risultato, cercare un nostro significato a quelle linee ingarbugliate e a quelle macchie di colore; possiamo sfogliare una rivista o un libro di immagini, facendoci catturare da una fotografia e pensare al perché ci piaccia così tanto, oppure ci disturbi così tanto; prendere in mano una macchina fotografica, o il proprio smartphone, e fotografare un angolo della casa, un oggetto, che ci colpisce, o che sentiamo sia importante per noi, e poi riguardare, magari in uno schermo più grande, la foto cercandone particolari di cui non c’eravamo accorti. Queste semplici attività sono un modo per creare una connessione con il nostro mondo interiore, dialogare con le immagini create da noi, o con delle fotografie che sentiamo vicine, permettendoci di creare un ponte di significato tra queste e quelle interiori. Le inizieremo a conoscere meglio, per conoscerci meglio e per fare, finalmente, un po’ di pace con esse". |
(di Valentina Ferretti, Psicologa specializzanda in Psicoterapia)
"Diceva Gramellini il 21 marzo “Dopo un mese di pandemia ci si sente come davanti a certe carte geografiche australiane con il mondo alla rovescia: la Patagonia sopra il Canada e Stoccolma sotto Nairobi. Il buon senso ha cambiato senso. …”.
Eh già, è proprio così! L’esperienza che stiamo vivendo come cittadini e professionisti è molto forte e complessa, è entrata con irruenza nel processo di costruzione di un nuovo sé di ognuno, sta creando condizionamenti che dureranno nel tempo. Ha offerto opportunità, a volte uniche, di misurarsi con una realtà particolare e con il sentirsi scontenti, estenuati, confusi, impauriti o arrabbiati. In questo tempo sospeso ecco allora l’avvicendarsi di diverse fasi: alla prima di quasi euforia, di vacanza in famiglia, di energia e a volte di paura, sopraggiunge la seconda fase quella del “caos”. In questo disorientamento i bisogni sembrano cambiare ordine, non sono diversi, si riconoscono, fanno parte della storia individuale: hanno solo un avanzamento o una retrocessione in una sorta di scala personale che si sta rimodulando. Alcuni traumi antichi riaffiorano, altre volte sono le risorse a balzare in primo piano e a stupire. In questa lunga fase di resistenza, noi professionisti incontriamo i nostri pazienti che ci portano il loro “caos” e la loro ridefinizione delle priorità personali, il loro nuovo punto di vista sulla propria vita e sulla propria storia. Molti dei loro vissuti personali sembravano abbandonati, ma in realtà erano forse semplicemente nascosti, temporaneamente dimenticati, se ne riconosce ancora il “sapore” e ora sono riemersi. Questo tempo diventa quindi un tempo terapeutico, un tempo creativo, se non ci si perde nel “caos”. La terza fase rappresentata dal futuro (il “nuovo ordine ritrovato”) sembra destare molta incertezza, provoca altrettanta paura e interrogativi, proprio perché appare come un’incognita. In questo viaggio a volte si riconoscono “mani” che non si possono stringere e magari tristemente igienizzate con “Amuchina”, ma con cui è possibile affrontare il viaggio, che grazie ad una alleanza, quella terapeutica, costituiscono una bussola per orientarsi in quella cartina “rovesciata”. Il terapeuta che riordina e ristruttura i bisogni insieme al paziente, che senza fraintendimenti, attento al linguaggio scientifico e a quello delle esigenze quotidiane, percorre il tragitto in uno sforzo assoluto attento all’immaterialità del domani". |
(di Enrica Giaroli, Psicologa, Psicoterapeuta)
"Più volte in questo periodo mi sono ritrovata a fare i conti con emozioni spiacevoli, le mie e quelle dei miei pazienti. Per noi psicologi lo studio e la riflessione sulle emozioni costituisce una parte centrale della formazione e del nostro lavoro. Il periodo che stiamo vivendo, che rappresenta un evento direi unico ed in cui tutti ci sentiamo messi alla prova, mi ha però spinta a riflettere nuovamente su di esse e su come “convivere” nel modo più funzionale con queste immancabili compagne di viaggio.
Prima ancora di pensare alle diverse modalità di gestione delle emozioni, che in questi giorni ci vengono ampiamente e correttamente proposte, mi sono soffermata su una delle considerazioni che condivido spesso durante le terapie e cioè il fatto che in questo periodo è normale che proviamo ansia, preoccupazione e tristezza. Trovandoci in questa situazione di “convivenza forzata” mi è sembrato importante tornare a riflettere sul significato e sulla natura delle emozioni per provare ad ampliare la visione che spesso abbiamo di queste come spaventanti e non utili, soprattutto se negative. Giovanni Maria Ruggiero descrive le emozioni come “ informazioni che sono prive di chiaro valore esplicativo”. Ci dicono come stiamo, ma non riescono a guidarci in analisi più approfondite della situazione e di noi stessi. “L’emozione ci segnala un problema e ci suggerisce delle via di uscita semplicistiche … scappare nel caso della paura, attaccare per la rabbia”. (Giovanni Maria Ruggiero, Terapia Cognitiva) Se questo non consentire analisi efficaci della situazione può rappresentare un aspetto non utile delle emozioni in quanto può portare a sentirsi in balia di queste, ad esserne spaventati e a non approntare risposte efficaci mi è sembrato interessante soffermarmi sul fatto che comunque ci comunicano come stiamo, un nostro stato d’animo verso le situazioni che stiamo vivendo. Partendo dall’ascolto attento e dall’accettazione di questo stato emotivo possiamo allora provare a fornire risposte che ci siano utili per adattarci a questo difficile periodo. Penso ad esempio come ansia e paura, che si attivano quando ci troviamo in contesti non conosciuti e che percepiamo come pericolosi, possano essere per noi il punto di partenza per la ricerca nella nostra quotidianità di elementi che ci aiutino a gestirle. Da qui può attivarsi un nostro maggior impegno verso comportamenti protettivi per noi e per gli altri quali portare la mascherina e guanti ed aderire, per quanto difficile, alle indicazioni di distanziamento sociale. Parimenti il convivere con inevitabili sentimenti di tristezza, che proviamo quando un nostro bisogno o scopo non viene soddisfatto, può rappresentare l’inizio di riflessioni che ci portano ad una rilettura di noi e di ciò che ci circonda per iniziare a perseguire nuovi interessi. L’auspicio è che una considerazione meno spaventante delle emozioni possa supportarci nel fare ciò che ci è possibile in questo momento per noi e per gli altri iniziando a farci percepire, affianco ai sentimenti di vulnerabilità, una sempre maggior considerazione delle nostre capacità di fronteggiare gli eventi. Mi piace infine concludere con quanto affermato da Sandra Sassaroli in una recente intervista circa la gestione delle emozioni in questo periodo: “si accetta e si naviga in questa situazione di difficoltà e di rischi oggettivi con la consapevolezza che si deve sempre avere in testa la paura, la tristezza e le emozioni negative, ma non si deve neanche mai dimenticare che quando abbiamo emozioni negative le dobbiamo sempre mettere al servizio di un comportamento responsabile, gentile e socialmente generoso” |
(di Graziana Porro, Psicologa, Psicoterapeuta)
Gli anziani ci sono sempre stati…eppure nell’emergenza dei nostri giorni sentiamo parlare soprattutto di loro. Spesso sentiamo dire “abbiamo perso la memoria del paese… è stata cancellata una generazione”.
La vecchiaia, le sue caratteristiche, le sue difficoltà e le sue potenzialità sono ancora ben poco conosciute. Pensiamo all’anziano pensando al suo corpo che invecchia e poco al grande significato che il suo ruolo ha nella nostra vita personale. Come psicologa e psicoterapeuta sistemica che lavora con le famiglie, la figura dell’anziano ha un ruolo fondamentale nella ricostruzione della storia di una famiglia. È importante, nell’ambito di questo modello terapeutico, ricostruire il trigenerazionale e andare a individuare quelle figure cardine della storia; spesso è la figura affettiva di un nonno, il ruolo di uno zio a determinare la storia personale di un paziente o lo sviluppo di dinamiche relazionali ed affettive di un’intera famiglia. La ricostruzione di una storia comincia quindi proprio da loro, dalle narrazioni e descrizioni degli anziani della famiglia, storie di persone che abbiamo conosciuto direttamente o di cui custodiamo solo un racconto riportato. La meraviglia dei pazienti, durante la costruzione del genogramma (Bowen 1979) di scoprire quanto sia stato importante la figura di un nonno nella ripetizione di modelli relazionali li aiuta a riconoscere se stessi nel sistema familiare. Quindi, cosa perdiamo con la morte di tanti anziani? Il legame, perdiamo il legame con la storia, con la grande storia degli eventi e con la piccola e più intima storia familiare che connette i giovani con le generazioni passate. Se di fronte al lutto chiediamo alle famiglie di riorganizzarsi, di affrontare il passaggio da una fase evolutiva ad un’altra, di fronte al lutto di tanti anziani della stessa comunità la riorganizzazione sarà collettiva. L’intero sistema dovrà elaborare la perdita di una parte importante, di una memoria storica ed affettiva, ma avrà un compito ancora più grande: custodire il valore del capitale umano scritto sulle rughe di un volto che non c’è più. |
(di Alessandra Orlandini, Psicologa, Psicoterapeuta e Istruttrice di Mindfulness)
La maggior parte di noi non avrebbe mai potuto immaginare un mondo così trasformato dall'emergenza Covid 19. Le nostre giornate sono state stravolte e improvvisamente ci siamo trovati a vivere una quotidianità limitata e inaspettata.
Quando un evento grave come una pandemia colpisce una collettività si crea una condizione di elevata emotività che può causare reazioni psico-fisiche particolarmente intense e stressanti che possono interferire con il funzionamento della persona. Le reazioni ad uno stress acuto e duraturo come quello che stiamo vivendo possono determinare emozioni quali: tristezza, colpa, rabbia, paura, confusione e ansia, e di conseguenza possono anche svilupparsi reazioni somatiche come disturbi fisici (mal di testa, disturbi gastro intestinali, ecc.) e difficoltà a recuperare uno stato di calma. Sono tante le preoccupazioni che ci assillano in questo momento, da quelle sulla salute, il lavoro, l'economia e le prospettive future, ed è quindi molto facile cadere in un vortice di pensieri molto negativi. Sappiamo che la naturale propensione della mente è quella di concentrarsi sul negativo, perché evolutivamente questo ci ha permesso di preservarci come specie. I pensieri negativi si auto-alimentano e ne richiamano altri, attivando così una rete neurale (default mode network) che supporta il divagare mentale. Quando la preoccupazione o la paura si manifestano nella forma di pensieri ed emozioni, è fondamentale che rimaniamo consapevoli delle sensazioni che provocano, riconoscendo la loro incontrovertibile prova di impermanenza. Più siamo capaci di fare questo, più riduciamo la tendenza della mente a rimuginare su pensieri controproducenti che non producono nient’altro se non sofferenza e infelicità. E' importante e protettivo, per ristabilire un sano equilibrio psico-fisico, attivarci per “allenarci a calmare la mente attraverso il corpo” e la pratica della mindfulness ci può permettere di dare la giusta dimensione alle cose, portandoci verso una maggiore consapevolezza, passando da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere. Possiamo portare un po’ di mindfulness nelle nostre giornate a casa, partendo dalle azioni quotidiane come cucinare, guardare un film, fare yoga, leggere, praticare meditazione o qualsiasi altra cosa ci piaccia. La mindfulness può permetterci di ri-centrarci e questa può essere una via da percorrere per far in modo che lo stress e la paura non prendano il sopravvento sulla mente e sulle nostre giornate. Un esercizio che possiamo fare tutti è la ‘Respirazione consapevole‘. Un esercizio per calmare la mente ed entrare in contatto con i nostri pensieri e le emozioni. Possiamo sederci in una posizione comoda ma dignitosa. Essere presenti a noi stessi, ascoltare le sensazioni corporee e portare l'attenzione all'inspirazione e all'espirazione. Ogni volta che ci distraiamo, torniamo al respiro. Prendiamo questa pratica come una buona abitudine per iniziare la giornata in maniera più equilibrata e centrata. Concludo con una poesia di Jon Kabat-Zinn, affichè questo tempo di difficoltà possa trasformarsi per tutti in tempo di consapevolezza. La meditazione come via Hai mai fatto l’esperienza di fermarti del tutto, di essere così totalmente nel tuo corpo, di essere così totalmente nella tua vita che quel che già sapevi e quello che non sai, e quel ch’è stato e quel che ancora dev’essere, e le cose come stanno proprio ora non ti danno neanche un filo d’ansia o disaccordo? Sarebbe un momento di presenza totale, al di là della lotta, al di là della mera accettazione, al di là della voglia di scappare o sistemar le cose o tuffarcisi dentro a testa bassa: un momento di puro essere, fuori dal tempo, un momento di pura vista, pura percezione, un momento nel quale la vita si limita a essere, e quell’essere ti prende, ti afferra con tutti i sensi, tutti i ricordi, fin dentro i geni, in ciò che più ami, e ti dice: benvenuto a casa. |